“Il valore di un’idea sta nel metterla in pratica.”
Thomas A. Edison

Dopo un lungo periodo di assenza torna la rubrica Bit Focus, che fa il punto sulle scottanti questioni etiche e non legate al mondo dei videogiochi. Con questo articolo andremo ad analizzare, commentare ed a volte anche criticare un fenomeno in grande crescita: quello del porting di titoli tra console (e non solo).

In principio era la guerra

In origine era il PC, e tutti i videogame giravano su queste potenti macchine: poi vennero le console casalinghe, e l’avvento di questi prodotti nei nostri salotti diede vita ad una spietata concorrenza fatta di videogame in esclusiva e di una vera e propria guerra che, non per niente, con gli anni ha preso il nome proprio di “console war”.

I videogame moderni sono, in un certo senso, figli di quel Nintendo e di quella PlayStation One che tanto hanno fatto per i videogiocatori: con l’aumentare della domanda però è inevitabilmente aumentata anche l’offerta, ed ecco che potremo giocare non solo nel salotto, ma anche sul nostro smartphone di ultima generazione o sulla nostra console portatile.

Questa varietà di device su cui far girare un gioco ha ovviamente spinto le software house a produrre titoli dedicati ad uno specifico ambiente che però ultimamente sempre più spesso sono oggetti di quella pratica denominata porting, ossia una ri-edizione dello stesso titolo su un diverso device.

Per quanto non sarà forse mai possibile giocare Uncharted 4 sul nostro tablet (e che Dio me ne scampi, aggiungerei), è altrettanto vero che il percorso inverso può essere fatto rapidamente e permettere di vendere più copie di un gioco con un (generalmente) piccolo sforzo.

Sono sempre di più infatti i videogames che fanno il grande salto, passando da dispositivi mobili alle console, come sono sempre di più i produttori “indipendenti” su cui il nostro Dario ha già ampiamente detto la sua ed in merito ai quali non ci dilungheremo più di tanto. La domanda che però ci poniamo è una: “E’ sempre giusto eseguire il porting di un videogame?”.

Pecunia non olet

Come dice un detto latino “il denaro non puzza”, che detto in parole povere indica che a nessuno fa schifo guadagnare qualche soldo in più, soprattutto dopo anni di lavoro e magari riducendo al minimo lo sforzo. Ecco perchè molti titoli di nicchia si stanno trasformando in un esercito di videogames da proporre ad una cifra X sul PlayStation Store, in una sorta di “Steam Green Light” a pagamento.

Il caso più eclatante dell’ultimo periodo (ed in parte quello che ci ha spinto a scrivere questo articolo) è quello di Life of Black Tiger, un titolo il cui trailer ha rapidamente raccolto su YouTube un numero record di commenti negativi, 35.000 sono al momento i “dislike”, scatenando i possessori di PlayStation 4 ed accendendo una miccia che era pronta a prender fuoco già da tempo.

Il gioco di 1Games, presente gratuitamente sul Play Store dei nostri smartphone, risulta infatti ad una prima occhiata decisamente inadatto a mostrare la vera potenza della console Sony, soprattutto considerato che un prodotto di questo tipo andrà pagato (e non certo pochi spiccioli, aggiungerei), anche se purtroppo non è il primo e non sarà l’ultimo a fare questo salto della fede.

La corsa al porting infatti ha colpito anche i ragazzi di Visual Imagination Software che, direttamente da Steam, ci hanno proposto il loro Joe’s Diner, altro prodotto che forse starebbe meglio sepolto nel deserto assieme al buon E.T. dell’Atari piuttosto che su uno scaffale digitale.

Il porting quindi è uno strumento potente che non deve essere abusato, soprattutto quando ci sono delle evidenti lacune tecniche o dei cambi di prezzo clamorosi: Joe’s Diner è proprio un esempio lampante di questo secondo punto, dato che è passato dai 7,99 di Steam ai 19,99 del PlayStation Store il che, francamente, sa davvero di esagerato.