Mentre dalle parti di Kamura si sono ammassati nuovi avventurieri, altri, principianti o veterani che siano, hanno iniziato a desiderare un terreno di caccia diverso rispetto a quelli battuti da PlayStation 2 in poi. E nella loro ricerca infruttuosa fino a oggi, hanno infine scoperto Wild Hearts.
Dopotutto, tanto è vero che per ogni genere esistano dei capisaldi tali da diventare dei modelli per i successivi titoli (per esempio ciò che Dark Souls, più di Demon’s Souls, ha fatto e fa nei GDR action), quanto il fatto che come Monster Hunter non esista quasi nulla. Un monopolio conquistato non senza merito, sforzi ed esperienza acquisita negli anni da parte di Capcom, ma il quale Omega Force sta cercando di scalfire da anni: prima con Toukiden, senza però alcun risultato concreto, oggi grazie al supporto di Electronic Arts con una produzione che, pur nelle sue limitazioni, potrebbe offrire una nuova, seconda base dalla quale partire all’avventura.

Il richiamo di Minato
Proprio in virtù della centralità della caccia nell’economia di Wild Hearts, la storia diventa una giustificazione al gameplay stesso; non lo si prenda per un difetto, quanto piuttosto come una differenza con altri esponenti dello sconfinato panorama videoludico. Le fondamenta filosofiche sono sempre quelle della sopravvivenza, dell’uomo contro la bestia, tanto per Capcom quanto per Electronic Arts e allora si può quantomeno lavorare sulla profondità dei singoli alleati.
Devono essersene accorti proprio gli autori della serie Dynasty Warriors che hanno deciso di spendersi nella realizzazione di personaggi con un buon livello di scrittura – al netto di dialoghi noiosi e logorroici – emarginati in cerca di rivalsa; certo, è facile scoprire ogni loro archetipo di provenienza, tuttavia la serietà messa in campo dai comprimari e le loro sfaccettature rappresentano un interessante ponte tra una battuta di caccia e un’altra.
In questo cosmo s’inserisce un cacciatore proveniente da una terra lontana, il quale viene improvvisamente in possesso di un misterioso potere tale da fargli materializzare dei macchinari, i karakuri, abbastanza poderoso da insignirlo dell’appellativo di prescelto per salvare la cittadina di Minato da orde di mostri in arrivo.

Il gusto della caccia
Tolto l’artiglio del paragone (inevitabile) con la creatura di Capcom, possiamo procedere con i preparativi alla caccia; Wild Hearts non si esaurisce infatti in una serie di parallelismi con il modello principale, bensì riesce nel non semplice intento di mostrare una propria personalità e, forse, in ottica futura, in quello di sopravvivere tra i veri cloni caduti negli anni. Il tutto al netto di lampanti limiti e mancanze figli anche della relativa inesperienza del team nei confronti di un certo sistema di gioco.
Per esempio è straniante vedere venire meno il senso strategico stesso di una spedizione offensiva, visti degli appositi simboli a segnalare la posizione della preda interessata e la possibilità di seguire una scia luminescente, indicante la via da seguire. A ciò si aggiungano delle mappe piuttosto ristrette e con dei percorsi guidati, oltre a degli habitat standard per i Kemono ed ecco che il rito propiziatorio alla caccia svanisce prima di cominciare. È un peccato perché così il loop di gameplay si tramuta in una più semplice corsa di boss in boss, i quali perdono le loro specificità, il loro potenziale biologico.

Mazzate sbilanciate
Spostandoci dai preliminari ai combattimenti, il lavoro di Omega Forge esplode invece nelle sue peculiarità, come nella risposta dei colpi: staccare parti delle creature e in generale assestare loro delle mazzate sarà sempre soddisfacente, sopratutto dopo avere temuto per la loro stazza e avere percepito il peso di ogni attacco fino al colpo di grazia scenico (dato anche con un tocco di umanità, visto che l’alter ego chiede persino scusa al nemico). Ciò è reso possibile da una grande diversificazione delle armi, davvero uniche ora nelle mosse, ora nelle dinamiche stesse sottese al loro utilizzo e alla conseguente necessità di cambiare approccio di volta in volta.
Gli strumenti offensivi sono otto e si distinguono tra quelli a lunga distanza come l’arco e altri, come una katana capace di allungarsi e caricarsi fino a creare un fendente circolare poderoso. Le mancanze tecniche dei design si palesano però tanto nella semplicità relativa delle combinazioni di attacco possibili, quanto specialmente nel bilanciamento: non servirà molto tempo affinché novizi ed esperti notino una netta superiorità di certe armi, come l’arco o l’ombrello, su altre, come il lento nodachi sostituibile proprio dal primo citato. Nonostante questo, è bene sottolineare che le unicità delle stesse aumenta il fattore rigiocabilità per gli amanti delle sperimentazioni.
Alla ricerca dell’equilibrio
A proposito di difficoltà, i Kemono sono dei perenni incolleriti che non esiteranno a caricare contro i giocatori, i quali potranno sì sfruttare una rotolata (o una scivolata in base alla pressione del tasto apposito), ma dovranno fare i conti con le loro dimensioni esagerate, tali a volte da invadere la schermata. La loro brutalità può essere arginata anche grazie ai Karakuri, strumenti come casse, catapulte, persino dispense i cibo, insomma, un pacchetto insettifero di pronta sopravvivenza. I cacciatori potranno sprigionare i loro poteri tanto in fase di esplorazione, costruendo cubi sui quali saltare o muovendosi in maniera più celere, quanto in quelle di combattimento, tra mine esplosive e trappole per i mostri.
Le possibilità sono davvero ampie e la meccanica risulta efficace in virtù di un sistema di costruzione facile da approcciare quanto da utilizzare, con tanto di anteprima dei singoli oggetti sempre presente a schermo, in modo da dare un’anticipazione sul risultato e da velocizzare il processo. Inoltre, ogni arma include delle mosse legate ai Karakuri, studiate abbastanza da penetrare le debolezze degli avversari: dovendo assemblare un sistema con tutti gli elementi descritti, possiamo solo immaginare quanto Omega Force si sia adoperata per tentare di equilibrarlo, rifacendoci al discorso posto sopra.
Lo si nota ad esempio nella facilità con cui un Kemono abbatte le nostre sudate casse, lo si percepisce nel limite imposto al numero di Karakuri sfruttabili in sequenza, la cui riserva andrà ricaricata raccogliendo certe piante, abbattendo alberi o durante gli scontri. Invero, tale limite viene allungato quando si parla di cooperativa, quando cioè le cacce, anche le più ostiche da soli, si fanno nettamente meno ardue. Organizzare una spedizione per un massimo di tre guerrieri è immediato, vista la possibilità di sondare la mappa e aggregarsi a una di quelle già in corso oppure chiamare tutti dalla propria parte.

Fauna, tecnica e flora
La versione per PlayStation 5 di Wild Hearts si difende senza particolari magagne tecniche, a eccezione dei cali di frame riscontrabili durante i momenti più concitati. Essendo in esclusiva per l’ultima generazione di console, ci è dispiaciuto non riscontrare un degno supporto al feedback aptico o ai trigger del DualSense, tutte caratteristiche che avrebbero enfatizzato le emozioni di una caccia virtuale. Non si salva per nulla la gestione della telecamera, i cui problemi sono legati alle aree di scontro piuttosto ristrette in proporzione alle dimensioni gargantuesche dei Kemono e a un sistema di targeting raffazzonato che non riesce quasi mai a stare dietro all’azione.
Se è vero che i kemono non vantano la stessa cura maniacale di Monster Hunter in fatto di design, le bestie di Omega Force sono invero ben amalgamate nel mondo di gioco. È chiaro che il team abbia prediletto una direzione più realistica, rifacendosi cioè ad animali come topi, scimmie e altri rispetto a una svolta fantasy totale con la quale davvero si sarebbero dovuti confrontare con Capcom; a ben vederli però, tale scelta appare come una scusante per delle forme piuttosto pigre.
Promuoviamo invece il pensiero sotteso al world building che si espande in modo lineare lungo ogni componente, quello cioè di un legame profondo tra gli umani e la natura, un insieme di flora e fauna da rispettare e onorare, pur facendo prevalere il principio di sopravvivenza del più forte. Ulteriore sorpresa positiva: Wild Hearts è tutto doppiato in italiano, con tanto di animazioni facciali ben incastonate alla lingua nostrana.
Trofeisticamente parlando: la caccia per i cacciatori (di trofei)
Wild Hearts è un letterale terreno di caccia per i cacciatori di trofei su PlayStation 5, con 49 statuette da collezionare, di cui 36 di bronzo, 10 d’argento, 2 d’oro e l’agognato Platino. Questo ultimo non è irraggiungibile, tuttavia sarà necessario macinare moltissimi Karakuri e fabbricare vari oggetti e strumenti per guadagnare alcune coppe e sconfiggere particolari Kemono per ottenerne altri. Per iniziare la caccia, quella ai trofei, potete andare sul forum PlayStation Bit.