La luce nell’oscurità di Kingdom Hearts III – Speciale

A Tetsuya Nomura è sempre piaciuto giochicchiare con i numeri, in particolare i ricorrenti sette e tredici, e non a caso (o forse sì) per avere tra le mani il vero seguito dell’avventura di Sora – senza contare gli spin-off – abbiamo dovuto attendere tredici anni, mentre il DLC Re:Mind uscirà sette anni dopo l’annuncio ufficiale del gioco (e trecentocinquantotto giorni dopo la sua uscita ufficiale). Quel che conta è che adesso, finalmente, Kingdom Hearts III è nelle nostre mani; lo abbiamo giocato, platinato e rigiocato in tutte le salse, con altri gusti presto in arrivo, e il nostro giudizio è stato estremamente positivo. E lo è ancora oggi, anche a un anno di distanza dalla sua uscita.

Kingdom Hearts III è stato però, senza esagerare, il capitolo più discusso dell’intera saga di Square Enix, incredibilmente divisivo per quanto riguarda il parere di critica e pubblico, quasi ai livelli di Death Stranding, ma per quale ragione? Perché una saga così amata dal pubblico ha rischiato di perdere la reputazione che si è costruita, contro ogni pronostico, diciassette anni fa?

Kingdom Hearts III

Possono prendersi il tuo mondo, possono prendersi il tuo cuore

Diciamocelo senza girarci intorno, Kingdom Hearts III non è ricoperto della stessa magia che caratterizza i capitoli precedenti. Il primo Kingdom Hearts era un mix di stupore, uno strano amalgamarsi di trame e sottotrame dallo scheletro complicato, ma dall’andamento genuino e sensato, costituito da una storia ben delineata da capo a coda e forte dell’incredibile charme e attenzione mediatica donatagli dai personaggi Disney, che si temeva avrebbero fatto solo da spalla all’universo di Final Fantasy, e invece l’equilibrio tra i due universi è stato perfetto. Kingdom Hearts II è stato, sia a livello tecnico che narrativo, un approccio di Square Enix più mirato al pubblico adolescente: reskin del protagonista, personaggi secondari e antagonisti più maturi, tecniche più stilose, ambientazioni mistiche e criptiche, molto più alla Final Fantasy, e soprattutto una storia intricata ma non troppo che ha fatto da complemento al primo “spin-off” (ci tengo a usare le virgolette) Chain of Memories, ma perfettamente comprensibile anche da chi si è approcciato per la prima volta al mondo magico di Sora, Paperino e Pippo – e infatti, parentesi personale, Kingdom Hearts II è stato il mio primo capitolo.

Kingdom Hearts III è ben diverso, invece. E il cambiamento radicale è palpabile fin dalle prime battute di gioco, precisamente non appena finita la parte II.9. Perché il monte Olimpo, il primo mondo visitabile, ha tutto il fascino dei vecchi Kingdom Hearts: ambientazione aperta, colori vivaci, storia divertente e villain perfetti, e poi c’è il primo nonché unico richiamo ai vecchi cattivi “originali”, Pietro e Malefica. Ma è l’unico mondo venuto fuori come Tetsuya Nomura comanda. L’idea alla base resta immutata, non fraintendetemi; ogni mondo Disney ha raccontato la storia del suddetto film oppure una trama alternativa, che sia antecedente o successiva all’opera di base, con l’intento di scaturire qualche nuova emozione o insegnamenti a Sora, e Kingdom Hearts III non fa eccezione. Il problema non sta nella morale o in cosa ci guadagna Sora nel viaggiare tra i mondi (anche se, vabbè, viaggia per ottenere un potere che ha già), ma è la consistenza narrativa ad avere enormi difetti. Viene spontaneo chiedersi, o quantomeno io l’ho fatto, come abbia fatto Sora a ottenere i poteri della trasformazione del keyblade o delle attrazioni nonostante quel che gli è successo in Dream Drop Distance. Ora quei poteri sono suoi e basta, il giocatore non deve fare domande. L’intero gioco è costellato da un via vai di momenti belli e brutti; alcuni mondi sono veramente interessanti, come appunto il monte Olimpo, la Scatola dei Giocattoli o il regno di Corona, mentre tanti altri sembrano soltanto riempitivi e concettualmente tremendi, primo fra tutti Arendelle.

Kingdom Hearts III

Separarti da tutto ciò che conosci

Quello per Arendelle è stato un viaggio da dimenticare, ma non per colpa di Tetsuya Nomura né di Square Enix. L’artefice è Disney. L’intero gioco è ricoperto da un pressing esasperato sulle opere Disney, voluto proprio dalla compagnia di Topolino, che ha spinto Square a dedicare maggiore spazio alle sue opere mettendole a stretto contatto con i team creatori dei film su cui avrebbero poi costruito un mondo di gioco. Il problema non è mai stato tanto presente con i precedenti Kingdom Hearts, in quanto non tutti i team di produttori cinematografici delle vecchie opere erano in attività; con le giuste, mai esasperanti direttive da Disney, insomma, Nomura è stato in grado di plasmare la storia che desiderava senza tanti problemi, ma non è andata così in questo terzo capitolo.

Disney è stata il suo stesso villain. Le imposizioni e le richieste di modifiche al team di sviluppo sono state il vero cattivo finale, la probabile ragione per cui lo sviluppo di Kingdom Hearts III è stato così travagliato. Il tempo stringeva e le pressioni si sono fatte sempre più intense, cosa che ha spinto il team a dedicarsi maggiormente alle licenze Disney che al proprio operato, ragion per cui la storia principale non è mai spalmata tra un mondo e l’altro, ma messa tutta insieme durante le fasi finali del gioco, anche se trovo eccessiva l’esclusione dei personaggi di Final Fantasy e non riesco a spiegarmi l’improvviso interessamento di Malefica per quella misteriosa scatola nera. Ma le cose non sono comunque andate come dovevano o volevano ai piani alti, e Arendelle è il perfetto esempio per descrivere i problemi di tutto il gioco.

Kingdom Hearts III
Andrea Letizia
Cresciuto a pane, Kamehameha e Crash Bandicoot, inglesizzato grazie a Kingdom Hearts. Grande amante degli action RPG e dei platform, dei cani e del wrestling.

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