In data 25 gennaio, il remake di Resident Evil 2 sarà disponibile in tutto il mondo. Un titolo attesissimo, sia dai giocatori più esperti che hanno avuto modo di giocare l’originale, sia dai novizi che avranno la possibilità di provare con mano un titolo storico, ulteriormente migliorato da una produzione che si preannuncia davvero di altissima qualità. Considerando la prossimità di questa uscita e la grande attesa che le si cela dietro (è personalmente il titolo annunciato che più attendo in questo 2019, preceduto solo da Devil May Cry 5), ho deciso che non ci fosse momento migliore per inaugurare una nuova rubrica: La BitMacchina del tempo.
Attraverso tale rubrica andremo a scavare nei meandri del tempo, alla ricerca di curiosità e, soprattutto, di succosi “dietro le quinte”, con il fine di comprendere le difficoltà e le ispirazioni che sottendono al processo creativo che porta a titoli fondamentali per la storia del gaming. Allacciate le cinture quindi. Direzione? Giappone, anno 1989.
Le origini del male
Come ogni viaggio che si rispetti, la nostra escursione temporale prevede una piccola deviazione. Prima di sviscerare lo sviluppo del secondo capitolo di Resident Evil, infatti, è saggio narrare come la stessa serie sia nata: un’origine curiosa e sconosciuta a molti. Nella terra del Sol levante, a fine anni Ottanta, il regista nipponico Kiyoshi Kurosawa (purtroppo non imparentato con il genio Akira Kurosawa) è il creatore di Sweet Home, classico film appartenente al J-Horror, che, di fatto, sarà il precursore di Resident Evil.
Capcom, infatti, nel più classico dei tie-in, produsse il gioco per Famicom, omonimo del titolo, addirittura con l’aiuto dello stesso regista. Questo titolo su licenza si rivelò una piccola chicca, probabilmente superiore persino al film da cui trae origine, e iniziò a delineare alcune meccaniche di gioco che sarebbero divenute molto care alla serie, tra cui un equipaggiamento limitato e un gran numero di enigmi sparsi in un ambiente labirintico. Insomma, un tie-in senza pretese era riuscito nell’impresa di creare gli stilemi e le meccaniche di un genere videoludico, quello del Survival horror.
Nonostante ciò, Resident Evil non fu una conseguenza immediata di questo piccolo successo, ma dovette aspettare ben sette anni prima di uscire nei negozi di tutto il mondo. Lo sviluppo del primo storico titolo è infatti da ricercare nel 1994, dove un giovanissimo Shinji Mikami (produttore ormai conosciuto dopo successi per SNES come Goof Troop e soprattutto Disney’s Aladdin), influenzato da capolavori sia videoludici, come Alone in The Dark e DOOM (inizialmente infatti il titolo era stato concettualizzato come un FPS), sia cinematografici come La notte dei morti viventi di Romero, inizia a idealizzare e a sviluppare gli orrori della storica villa Spencer.
Nel 1996, dopo due anni di sviluppo, Resident Evil viene pubblicato in tutto il mondo (in Giappone con il nome BioHazard, non utilizzabile in Occidente per problemi di copyright legati a una band alternative metal americana) e diviene immediatamente un titolo dal successo clamoroso, un’opera in grado di rendere popolare e in voga l’intero genere horror. Ora che questa piccola, ma doverosa, deviazione temporale è stata esplorata, è il momento di dirigersi direttamente all’obiettivo principale, ovvero la produzione del secondo capitolo.